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Padova profuma di nebbia stamattina.
La città dei portici ti accoglie lentamente, senza fretta. Cammino con passi ovattati tra i vapori che risalgono dal Bacchiglione. Qualche anatra silenziosa nuota pochi metri più in basso di me. Intravedo fra le case il Duomo. Di rado mi ritrovo così presto in centro a Padova, ma oggi era davvero inevitabile - in senso buono.
Intravedo un minuscolo vigneto proprio accanto al ponte, davvero difficile da notare se non passeggiando lungo il fiume. Sono quasi arrivata. Avvisto uno storico bar e mi ci addentro.Apro la porta, salutando. Nel bar, solo un uomo sulla sessantina, capelli ricci e gioiosamente brizzolati, sopracciglia aggrottate nel riordinare le brioche. Solleva lo sguardo, per un attimo sorpreso di trovare qualcuno altrettanto assorto nello squadrare le paste.
Mi saluta tra il gioioso e il nervoso, il signor Gianni Boetto. Non voglio rubargli altro prezioso tempo prima dell’arrivo dei primi veri clienti, ma insiste perché possa bermi almeno una tazza di caffè. Assonnata ringrazio e gironzolo con lo sguardo nel bar che per qualche scherzo delle lampadine appare particolarmente rosa quella mattina. In quella luce fanno capolino più prepotentemente i piccoli e grandi vasi sparsi nel locale. Sbocconcellando velocemente una delle fantomatiche paste osservate poco prima con insistenza, ringrazio nuovamente il signor Boetto per aver accettato di rispondere a qualche domanda. “Chiamami Gianni”, ribadisce lui.
Terminata la colazione in quattro morsi ed un sorso, Gianni ed io ci avviamo fuori dal bar. Ci spostiamo giusto qualche metro più il là, fino a raggiungere il vero motivo per cui mi sono ritrovata alle 7 del mattino in quel ponte di via Tadi. “E' arrivato un ospite giusto ieri sera”, mi dice, voltandosi sorridente.
Cigolano le serrande alzate con cura e una ventina di piantine salutano il sole appena sorto, ognuna di loro disposta comodamente sui propri trespoli e nei loro vasi. Auguro il buongiorno a quello che è stato affettuosamente ribattezzato “L’ospedale delle piante e dei fiori”.
Orchidee, una piccola yucca, un pino ancora più minimo - la flora dei pazienti è decisamente variegata. Da un alto sgabello, sento lo sguardo di una bambola di porcellana che mi preme sulla schiena. “Non è la prima volta che mi fanno domande riguardo alle piante, sai.”
“È che c’è tanta gente che ama avere delle piante in casa, anche se in appartamento. Non c’è bisogno di avere un giardino per crescerle. Le persone ne sentono proprio il bisogno, fanno stare bene. Solo che non è detto che sappiano farle stare bene a loro volta.”
“Mi è venuta quest’idea circa tre anni fa. I miei genitori mi avevano lasciato un negozio sfitto, poco più di una stanza, e io avevo già il mio bar da seguire, non volevo aprire un’altra attività ma nemmeno vendere quel posto. La gente che vive qui sa che amo molto stare con le piante, e già da tempo avevano iniziato ad affidarmene qualcuna che secondo loro era un caso disperato. E io le curavo. Scherzosamente avevano preso a chiamarmi dottore, perché prendevo in cura solo piante malate. Un giardiniere di solito diventa famoso per le piante rigogliose, un dottore per i malati che riporta in salute. Per quello adesso ho un’ospedale. Un giorno ho alzato le serrande de negozio dei miei, dato una pulita e piazzato una piccola insegna.”
Mi indica il foglietto di carta attaccato alla vetrina, scritto a pennarello e accompagnato dal disegno di un fiorellino. Accanto a lui, piccoli ritagli di giornale che raccontano le gesta del primario dell’ospedale ed una dicitura. “Hai una piantina in difficoltà? Passa da Gianni e proverà a salvarla! (con piacere e senza una lira)”
Crescere delle piante sane è bello, ma mi piace ancora di più dare nuova vita a quelle che sembravano da buttare. Le piante trovano sempre una strada. Guarda questa.
Si china su di un vaso capiente ed io seguo a ruota. Quella che riconosco essere foglie di un ortensia crescono timidamente ma numerose.
“Lei era giusto un tronchetto con della terra quando me l’hanno portata un mese fa. L’ho travasata, ho tagliato le radici, le ho cambiato la terra. Era in un vaso minuscolo, è normale che non avesse più spazio per vivere. Non mi piace quando le piante rimangono in dei vasi troppo piccoli per loro. Sono fatte per crescere quanto più possibile dopotutto.”
Ancora accucciata, scorgo una sfilza di Stelle di Natale in vari stadi del loro processo di cura.Gli chiedo quante ne vede ogni anno di queste pazienti.“Ah, almeno una ventina. Nessuna pianta è brutta, mai, ma certamente mi dispiace che in così tanti si rivolgano a me per le loro cure. Se non ci fossi io tutte queste sarebbero già morte da un pezzo. Ma io dico perché regalare una pianta se poi sai che andrà buttata. È una vita. Non sono fatte per resistere a lungo in città, sono delle montanare. È come chiedere ad uno camoscio di arrampicarsi su un grattacielo. Potrà anche farlo, ma non per molto.”
E le orchidee? Ne intravedo una tenuta in piedi da un bastoncino rosso.“Stessa storia. Vengono cresciute intensivamente in serre e ormai sono progettate per perdere i loro bei fiori entro un paio di mesi. Le persone a quanto pare non amano solo il colore verde delle foglie e così molto spesso le buttano. Oppure insistono a curarle nella maniera sbagliata e finiscono per ucciderle. Anche lì, delle piante tropicali la vedo dura che crescano volentieri nella Pianura Padana, anche se le metti nel bagno più umido della casa. Così come non mi sembra di vedere molti banani crescere frutti da queste parti.”
“Solo perché una pianta non è appariscente o esotica non vuol dire che valga meno. Certo, le piante che conosciamo e che pensiamo siano di queste parti hanno spesso storie complicate e vengono da molto lontano, ma se il clima e l’ecosistema sono a favore dei nuovi arrivati allora il problema non si pone.”
D’un tratto, Gianni si rizza in piedi. “Non ho ancora dato un’occhiata alla nuova arrivata”, mi dice trafelato mentre si affretta a raggiungere la piantina rimasta giusto di fronte al negozio. Il paziente arrivato dopo la chiusura sembra essere un potos un po’ avvizzito, cresciuto attorno a quello che pare essere un tiragraffi piantato nel vaso stesso. L’orfanello è addirittura accompagnato da un biglietto incastrato fra i tralicci. “Caro Gianni, sono passato per lasciarti una pianta. Era di mia mamma, è cresciuta bene e rigogliosa per anni ma adesso sta morendo. Se può prenderne cura le sarò molto grato. Ogni tanto prendo il caffè da lei, sono molto alto. Lunedì passo. Grazie, Fabio Caffè”.Devo immaginare che l’inquilino tiragraffi sia la possibile causa del malessere, con la conferma di Gianni. Decide di dedicarcisi non appena avrà un momento libero, borbottando fra sé e sé quale terra potrebbe fare al caso suo.
"è che le persone ne hanno proprio bisogno, delle piante"
Il sole ancora troppo tiepido si stende sul piccolo negozio. Giusto lì di fronte, il minuscolo vigneto che avevo addocchiato arrivando fin lì. “E' il Giardino degli Ingiusti”, mi accenna Gianni, vedendomi assorta a guardare il verde. “Una volta qui mio padre aveva piantato questa quercia stupenda, una roba meravigliosa. Il comune l’ha buttata giù perché diceva che non faceva scorrere bene il traffico. Ma non era una cosa giusta, non dava fastidio a nessuno quell’albero. Per questo l’ho chiamato così, Giardino degli Ingiusti. Così al suo posto ho fatto un’aiuola, poi un vigneto e anche un orto, tutti là in fila. La gente viene qui e pianta i suoi fiori così siamo tutti più felici."
Non ci guadagna niente lui. O almeno non in denaro. “Ah no, non mi farei mai pagare per una cosa così. Poi io sono contento, io sto con le piante e loro stanno con me. Poi se riesco a guarirle tornano a casa, e anche lì la gente sarà più felice. Mi piace fare così. Ho sempre amato piante e animali, quindi mi viene naturale averli attorno, no? E mi piace che anche gli altri possano starci un po’ assieme.”È anche per questo che sta organizzando una piccola pensione per gli alberi di Natale da poco spogliati dagli addobbi, o si prodiga in lezioni di giardinaggio casalingo per i più anziani. "Crescere le piante fa crescere anche le persone”, ci tiene a ricordarmi il primario.
Sono felice di averla incontrata, la ringrazio davvero. Non voglio rubarle altro tempo, ci sarà già qualcuno che vuole un caffè ormai e poi deve pensare anche ai suoi pazienti. Un sorriso ed una bella stretta di mano, palmo grande da lavoratore che stritola. Gianni mi saluta ancora una volta mentre scappa in una leggera corsa tornando al suo bar. La città è ormai viva. Le automobili passano sul ponte, ignare dello sguardo di un pubblico fiorito. Con la nebbia che sbuffa nel freddo del mattino, ringrazio le gentili ospiti del signor Boetto e le inquiline stabili del giardino. Mi allontano silenziosamente come sono venuta, l’alba negli occhi.
Grazie per essere rimasto con noi fino alla fine.
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